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Nuova disciplina per regolarizzazione lavoratrici a nero

La materia delle sanzioni per il lavoro sommerso è stata, in questi ultimi anni, oggetto di continui adattamenti e cambiamenti, sol che si pensi a tutte le novità che sono intervenute a partire dall’art. 3 del D.L. n. 12/2002, convertito, con modificazioni, nella legge n. 73/2002.

Ora, fermo restando il principio del “tempus regit actum”, secondo il quale si applica il regime sanzionatorio per le violazioni commesse prima del 24 settembre 2015, data di entrata in vigore del D.L.vo n. 151/2015, vengono modificati gli importi delle sanzioni previste per l’impiego di lavoratori subordinati senza la comunicazione preventiva di instaurazione del rapporto al centro per l’impiego, attraverso il sistema telematico, a carico dei datori di lavoro. Ora gli importi (complessivamente minori), verranno così modulati, seguendo il principio della sanzione per “fasce”, già in uso per alcune violazioni in materia di orario di lavoro, in relazione a diversi periodi temporali:

  1. da 1.500 a 9.000 euro per ciascun lavoratore, in caso di impiego irregolare fino a 30 giorni di lavoro;
  2. da 3.000 a 18.000 euro per ciascun lavoratore in caso di impiego irregolare da 31 a 60 giorni di lavoro;
  3. da 6.000 a 36.000 euro per ciascun lavoratore in caso di impiego irregolare oltre 60 giorni di lavoro.

Rispetto al recente passato una grossa novità è rappresentata dall’ applicazione dell’istituto della diffida (con alcune eccezioni che vedremo tra un attimo) prevista dall’ art. 13 del D. L.vo n. 124/2004 che consente al trasgressore di estinguere la violazione, adempiendo agli obblighi entro 30 giorni e pagando l’importo nella misura minima o pari ad un quarto dell’importo se questo è in misura fissa (oltre alle spese di notifica) entro i 15 giorni successivi: nella sostanza, il trasgressore, ha a disposizione  45 giorni di tempo dalla conoscenza del verbale di illecito, per sanare le irregolarità riscontrate.

Alcune riflessioni, si rendono, a questo punto, necessarie.

È, plasticamente, evidente come il nuovo quadro sanzionatorio si ponga, sotto l’aspetto della consistenza pecuniaria, in maniera molto diversa rispetto al passato.

Il raffronto con la nuova impostazione sanzionatoria prevista dall’art. 22 pone, da subito, in evidenza, come il sistema degli importi a scaglione abbia come diretta conseguenza l’eliminazione della sanzione aggiuntiva, rispetto a quella “base” che era correlata ad ogni giornata di impiego del lavoratore “in nero”.

Ma come si ottiene la possibilità di pagare il minimo attraverso la diffida?

Ove occorre procedere alla regolarizzazione di lavoratori che sono nell’organico “in nero” e per i quali la prova della avvenuta stabilizzazione degli stessi, unitamente al pagamento delle sanzioni e dei contributi e premi previsti, va fornita, come vedremo, entro 120 giorni.

La grossa novità introdotta dall’art. 22 passa attraverso la regolarizzazione dei lavoratori in forza: afferma, infatti, il Legislatore delegato, che in relazione ai lavoratori “non in regola” ancora in forza e fatta salva l’ipotesi in cui i lavoratori siano stati già regolarizzati in un periodo lavorativo successivo (dopo, ad esempio, la c.d. “prova in nero”), occorre stipulare un rapporto di lavoro a tempo indeterminato anche a tempo parziale con una riduzione rispetto al full-time non superiore al 50% o, in alternativa, un contratto a tempo determinato a tempo pieno e determinato non inferiore a 3 mesi ed, inoltre, è necessario mantenere in servizio gli stessi lavoratori per almeno 3 mesi. In questo solo caso, la prova della avvenuta regolarizzazione e del pagamento delle sanzioni, dei contributi e dei premi va fornita entro il termine di 120 giorni dalla notifica del verbale.

Come si vede, il passaggio effettuato dal Legislatore delegato, rispetto al passato ove si chiedeva la regolarizzazione dei lavoratori “in nero” senza specificare la tipologia contrattuale e la durata, è evidente: qui si chiede “in primis” la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato anche a tempo parziale, con una riduzione oraria non superiore al 50%.

Una piccola riflessione merita l’assunzione a tempo parziale con una riduzione di orario non superiore al 50%: qui il limite minimo è fissato dal Legislatore ed è coerente con i fini “premiali” ipotizzati (applicazione della sanzione pecuniaria in misura minima). Esso prevale anche sul dettato contrattuale che, in alcuni casi, potrebbe prevedere la possibilità di un rapporto part-time di durata inferiore o non prevedere, addirittura, una durata minima (del resto, la norma generale sul part-time contenuta nel D.L.vo n. 81/2015, non lo ipotizza). Questa disposizione potrebbe creare qualche difficoltà operativa in alcuni settori (si pensi, ad esempio, ai pubblici esercizi, ove la prestazione “in nero” è legata ad orari svolti nel fine settimana (ad esempio, 8 ore), con difficoltà, ad esempio, a prevedere un “minimum” di 20 ore, rispetto al normale orario, soprattutto se il lavoratore interessato già svolge, regolarmente, altra attività o anche ai servizi di pulizie ove le prestazioni sono molto “parcellizzate” e, raramente, raggiungono la metà dell’orario contrattuale).

Altra possibilità consentita al trasgressore è regolarizzare i lavoratori “in nero” con un contratto a tempo determinato ad orario pieno dalla durata non inferiore ai 3 mesi: è evidente che, nel caso di specie, trovi “in toto” applicazione il D.L.vo n. 81/2015 che disciplina la tipologia negli articoli che vanno da 19 a 29. Da ciò, a livello teorico, potrebbe discendere una questione: se il datore di lavoro ha già raggiunto la soglia massima di lavoratori assumibili con tale tipologia (20% limite legale o quello diverso fissati dalla contrattazione collettiva), potrebbe scattare, in caso di accesso ispettivo successivo, la sanzione ipotizzata in questi casi?

Ultima condizione per essere ammessi al pagamento in misura minima è quella secondo la quale, una volta avvenuta la regolarizzazione, i lavoratori debbono essere mantenuti in servizio per almeno 3 mesi. Questo sistema della durata minima obbligatoria (già utilizzato con un limite di 12 mesi, ad esempio, per la “stabilizzazione” delle collaborazioni coordinate e continuative e delle c.d. “partite IVA” dall’art. 54 del D.L.vo n. 81/2015) dovrebbe “chiudere” la strada dell’immediato “recesso datoriale” successivo alla “messa in regola”, cosa che, in passato, si è registrato più volte. Piuttosto, c’è da osservare come l’obbligo di garantire una permanenza in servizio per almeno 3 mesi appaia assoluto, non esistendo l’esimente, pur presente in situazioni analoghe come la “stabilizzazione” dei collaboratori, della giusta causa e del giustificato motivo soggettivo.

Resterà sempre da esaminare e risolvere la questione delle eventuali dimissioni del lavoratore, successive all’assunzione, cosa che non consentirebbe al datore di lavoro di “onorare” l’impegno di un rapporto di lavoro di almeno 3 mesi: vedremo se la nuova procedura ipotizzata dall’art. 26 che ne prevede l’efficacia soltanto attraverso una procedura telematica controllata direttamente dal Ministero del Lavoro, aiuterà nella soluzione.

La seconda novità (art. 22, comma 1, che interviene con il comma 3 – quinquies sull’ art. 3 legge n. 73/2002), dopo la reintroduzione della diffida, è rappresentata dal fatto che vengono meno quelle sanzioni correlate che, prima, erano comminate dagli ispettori del lavoro “quasi in automatico”: vengono, infatti, escluse quelle concernenti l’omessa comunicazione telematica preventiva  di instaurazione del rapporto (art. 19, comma 3, del D.L.vo n 276/2003), l’omessa consegna della lettera di assunzione (art. 19, comma 2, del D.L.vo n. 276/2003) e le omesse registrazioni sul Libro Unico del Lavoro (art. 38, comma 7, del D.L. n. 112/2008 convertito, con modificazioni, nella legge n. 133).

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